Il testo di Ippolito Pizzetti (1926-2007), pubblicato dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche per la prima volta anche in inglese nell’ambito della collana editoriale “Memorie”, serie “Minima”, è stato scritto a Roma tra il dicembre 1981 e il 21 marzo 1982, come Introduzione al suo volume Pollice verde.
Questa, che è molto più che un’introduzione, era già stata resa disponibile dalla Fondazione nel 2011, a cura di Domenico Luciani: «Ippolito Pizzetti è stato per tutti noi, dal 1988, un riferimento imprescindibile per acutezza critica, per ampiezza di interessi, per stile di vita. In tanti viaggi entusiasmanti e faticosi, in tante discussioni intense e fertili, in tante comuni battaglie, ci ha insegnato il gusto per il confronto di idee e di proposte. Ha donato alla Fondazione Benetton Studi Ricerche la sua biblioteca, con un gesto di generosità radicale e di raro disinteresse. I suoi pareri puntuali e i suoi consigli molto concreti, lontani da ogni intellettualismo, sono stati per noi preziosi in ogni situazione nella quale la Fondazione fosse alle prese con elaborazioni sul governo e sul disegno del paesaggio e del giardino. […]».
«Se smetto di amarti è il Caos, dice Otello: ed è così. Se faccio (non creo) un parco, un giardino, non è il lavoro di scelta che compio o di organizzazione da cui mi aspetto la gioia, il mio gesto è solo propiziatorio ma dalla vita che d’un tratto si esprime dentro il corso della stagione nelle piante, dal loro prosperare e crescere, che è al di fuori di me, che è cosa degli dei, di cui io sono soltanto spettatore e testimone. Al massimo il catalizzatore. Se io scrivo, qualunque cosa scriva, quale che sia il risultato, le mie parole, passato l’entusiasmo e la foga del momento creativo, mi appaiono come scritte sull’acqua, e perché torni a sentirmi vivo, e loro con me, esigono, debbono generare, altri pensieri, altre parole, altri sentimenti: fermarmi è come se il mio cuore smettesse di battere o la luce del giorno non vincesse più la notte», Ippolito Pizzetti.
Preservare e divulgare l’eredità storica di una terra per trasmettere alle nuove generazioni il senso di appartenenza a una comunità e trarre insegnamento da chi ci ha preceduto.
“La storia di Valdobbiadene è intimamente connessa – spiega l’autrice Adriana Rasera – a quella dei suoi figli. Ho voluto raccontare di uomini e donne che sono nati, o che si sono fermati, in questa terra e che hanno saputo distinguersi per ingegno”. Un distillato di vite che l’autrice, giornalista e docente di comunicazione, ha cercato di sondare, ricostruendone le biografie, condensando le informazioni e utilizzando un linguaggio quasi cronachistico, in modo da consegnare al lettore un quadro il più esauriente possibile, con pagine corredate da foto storiche, per lo più inedite, e da foto artistiche, realizzate dai fotografi dell’associazione IMAGO.
L’autrice ha voluto mettere in evidenza i tratti umani dei personaggi, attraverso una complessa e impegnativa ricerca delle fonti, a volte mancanti altre volte contraddittorie. Questo libro vuole essere un omaggio a tutta la comunità valdobbiadenese, al suo passato e a chi lo ha onorato.
Prendendo ispirazione dalla letteratura antica, dal De Rerum Natura di Lucrezio e dalle Metamorfosi di Ovidio, fino alla contemporanea di Italo Calvino in Lezioni Americane, il concetto di “leggerezza” è al centro delle pagine del volume fotografico di Carlo Guttadauro. Il soggetto? Il Prosecco: «Le immagini scelte si muovono come le bollicine; rendono leggeri i palazzi, i castelli, le sculture, i ponti, gli affreschi e le tavole che pur ritraggono il reale con grande maestria. Trasformandolo e facendolo vedere sotto un’altra luce» (dall’introduzione di Massimo Donà).
Gioco, sperimentazione e leggerezza sono il fil rouge che conduce all’interpretazione degli scatti fotografici di Guttadauro, il quale afferma che nel viaggio tra il Veneto e il Friuli – e nella libertà che il Processo DOC gli ha accordato – ha trovato materia interessante da cogliere e scoprire nella sua luce, nelle sue ombre e nei suoi colori, ma con spirito libero e leggero, come le bollicine.
«Ora, il mio più grande desiderio? Che nelle fotografie si legga in filigrana – come direbbe Malraux, parlando della “struttura Vermeer” – non una tela caduta nelle mani del pittore, ma il sistema di equivalenze che fa sì che tutti i momenti del quadro, come centro aghi su cento quadranti, indichino la stessa insostituibile deviazione. Lì, in quella piega si fonderà ciò che resta».
La magia del vetro ha affascinato le popolazioni di tutte le epoche. Questo straordinario materiale ha una lunga storia, che si intreccia con l’evoluzione della civiltà umana, le scoperte tecnologiche, le relazioni tra i popoli e le loro culture, determinando importanti aspetti del costume, della moda, dell’economia e della società in ogni tempo. Questo volume si propone di tracciare l’inedita storia dei gioielli in vetro focalizzando l’attenzione sui secoli XIX e XX, periodi in cui si sono formati artisti, di riferimento in particolare dell’Art Nouveau, e sviluppati importanti laboratori che hanno realizzato gioielli ancora oggi amati e collezionati da estimatori di tutto il mondo.
Grazie a testi scientificamente approfonditi e a un’esposizione chiara e scorrevole, il volume è rivolto agli addetti ai lavori, così come al grande pubblico di appassionati di arte, gioielli, moda e design. L’ampio corredo fotografico inedito e ricco di dettagli offre una sorprendente ed esaustiva panoramica sui gioielli in vetro oggetto del desiderio di molti collezionisti, designer, mercanti d’arte e non solo. Il volume contiene apparati con glossario tecnico, schede biografiche dei produttori, degli artisti e documentazione di approfondimento.
Con la prefazione di Chiara Squarcina, l’introduzione di Ermanno Arslan e con schede di approfondimento di Alessandro Asta, Paolo Bellintani, Silvia Ciappi, Mariagrazia Celuzza, Francesca Colmayer, Roberta Cruciata, Ana Estrades, Anna Maria Fedeli, Serena Franzon, Annalisa Giovannini, Katherine A. Larson, Chiara Maggioni, Alessandro Marzo Magno, Luciana Mandruzzato, Maura Picciau, Alexandra M. Ruggiero, Federica Sala, Giovanni Sarpellon, Maria Teresa Sega, Giorgio Teruzzi, Marina Uboldi
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“Avevo un borsone di documenti che erano un lungo filo di lana la cui storia si tesseva attraverso i periodi travagliati di Venezia”. (Sandro Zara)
Uno spaccato di storia veneziana a ripercorrere il mondo della lana a Venezia fin dal 1200, accompagnati dal passo deciso della dinastia dello storico lanificio Cini. Un percorso tortuoso, contrassegnato da significativi avvenimenti storici e storie di vita vissuta, raccontato attraverso le voci forti di coloro che hanno sviluppato la storia della lana e nella rilettura del più antico saper fare. Una storia che non finisce, ma continua tutt’oggi grazie al passaggio di testimone da Giorgio Zava Cini a Sandro Zara.
Sandro Zara, imprenditore della moda. L’amicizia con l’ultimo discendente della Lanificio Cini, l’ha portato a rilevarne marchio ed archivi per realizzare una linea di abbigliamento legata anch’essa alla rilettura in chiave moderna di stili e tessuti del secolo scorso.
Pietro Ruo, giornalista e scrittore, ha lavorato per molti anni al Gazzettino, dove ha diretto le redazioni di Belluno e Treviso ed è stato caporedattore centrale a Mestre, dove ha concluso la carriera.
Il castello di San Salvatore, testimonianza architettonica tra le più insigni della Provincia, sorge a fine Duecento sulla fascia collinare di sinistra del medio Piave per mano dei conti di Treviso i quali, a differenza di quanto accade in altre realtà urbane venete e italiane, formano dinastia e rigenerano il destino della stirpe al di là del fiume dove sono attestati sin dal tempo degli Ottoni. L’intento del fondatore, il conte Rambaldo VIII di Treviso, figura di alto rilievo in grado di porsi in relazioni con papi, re, imperatori è fare di San Salvatore la maglia base di una rete di centri fortificati in grado di garantire al casato il controllo dei passi sul Piave. L’ambizioso progetto lo riprende il figlio Schinella V, che completa e rinforza la recinzione del borgo. Centocinquanta anni di guerre al fianco di Venezia e il fervore artistico dell’età rinascimentale, che vede coinvolti artisti, decoratori, poeti e letterati, tutto in chiave di promozione del mecenatismo di famiglia. Tra le figure di primissimo piano del mondo letterario con cui entra in contatto sono Pietro Bembo e Pietro Aretino, a suo tempo ritenuto la penna più spregiudicata e riverita del Cinquecento nazionale. Dopo secoli di storia, alla fine del primo conflitto mondiale «purtroppo è perduto il gioiello, la gemma di tutti i castelli medievali non solo del Trevigiano, ma del Veneto tutto e forse dell’Italia». A cavallo di secolo e di millennio il nipote del conte Rambaldo porta a compimento l’opera di recupero del grande palazzo, per restituire all’antico maniero un volto di un tempo con nuove prospettive di vita.
“Ci sono passioni forti, come quelle del calcio, e altre che invece pretendono il silenzio, come la fotografia, muta per la sua natura tecnologica e identità estetica. La fotografia, paradossalmente, è misteriosa, nonostante il suo realismo. È ambigua in modo subdolo e spesso pretende e sollecita di essere decifrata come un rebus”.
Le parole di Italo Zannier ben introducono al viaggio nei moti dell’anima del fotografo Daniele Macca. Un’indagine che racconta in un’intimità suadente e silenziosa di paesaggi, luoghi, persone rivelandone un’identità quotidiana originale e talvolta sorprendente. “Motus animi continuus” è un impulso creativo che accompagna e trascina l’artista. Il libro si sviluppa in tre percorsi: Venetia, Effigies e Architectura. “La fotografia”, conclude Zannier nella sua prefazione, “non va spiegata, ma guardata a lungo, anche dopo il primo impatto. E guardata in silenzio”.
Nato in Svizzera nel 1966, Daniele Macca si diploma grafico pubblicitario al Liceo Artistico “Michele Fanoli” di Cittadella (PD). A metà degli anni Novanta inizia la sua collaborazione con l’agenzia “Fotocronaca” di Romano Zamattia, che gli permette di fotografare i primi concerti, entrando così in contatto con il mondo della musica e dei suoi grandi interpreti. Dal 2009, intensificando la collaborazione con il Gruppo Gedi, Macca diventa apprezzato fotoreporter, creandosi un importante archivio fotografico.
“Sulle Dolomiti c’è un fiore bellissimo, la Primula meravigliosa. Un fiore di origine molto antica, che ha conosciuto le tormentate, difficili stagioni della formazione delle Alpi, gli aspri periodi delle glaciazioni, adattandosi a vivere su terreni freddi, oppressi dai lunghi inverni, dalle primavere tardive, dalle brevi estati e dai ventosi periodi autunnali. […] Allegoricamente questo elemento naturale può richiamare alla mente l’esperienza di alcune persone come poeti, letterati, artisti, studiosi spesso relegati ai margini della comunità di montagna, i quali hanno generato delle gemme di vitalità e di bellezza, lottando spesso contro una generalizzata diffidenza. Una di queste personalità è sicuramente il pittore cadorino Aldo De Vidal (1912 – 2006), artista capace di indagare e trasmettere l’ambiente circostante fatto di uomini e tradizioni, di lotte e di drammi, di natura e di sogni, contrastando sempre il pensiero della montagna mitizzata e sublime, consapevole che l’ambìta cima è un elemento effimero e casuale dettato dalla creazione del lungo processo distruttivo”.
Il catalogo della mostra a lui dedicata traccia i sentieri della sua vita, dalle origini, gli esordi e l’emigrazione in Argentina fino al ritorno e le nuove prospettive nelle quali sviluppa la sua piena affermazione artistica. Con gli anni Ottanta, i Murales di Cibiana e le grandi mostre a Pieve, Venezia e Roma e gli ultimi passi con mani sempre vivaci e al lavoro. Nell’opera sono inclusi racconti e poesie, con testi che documentano il suo patrimonio artistico fatto di disegni, incisioni, serigrafie e litografie che accompagnano tutta la sua produzione.
«Cosa si nasconde dietro le apparenze? Quali scelte fanno muovere certe dinamiche, come dipingere un corpo fino a farlo sparire e confondere con l’ambiente circostante, svuotarlo del proprio significato e trasformarlo in uno strumento per esprimere idee e posizioni sulla vita, la società, l’arte? Interrogativi questi a cui gli artisti tedeschi Vera Lehndorff e Holger Trülzsch danno delle risposte precise e concrete attraverso Behind the Appearances, il nuovo progetto espositivo ospitato alla Galleria Regionale d’Arte contemporanea Luigi Spazzapan di Gradisca d’Isonzo.
“Dipingere il corpo di Vera è un tocco, una fatica d’amore; ed è, anche, simultaneamente l’eliminazione di quel corpo, tanto che esso non le appartiene più e non è più identificabile con lei. Il corpo umano si inserisce in un’immagine come in un contorno senza un centro. Visto privo della sua prospettiva illusionistica (anamorfica) il corpo si emancipa dalla sua materialità e diventa un’unità autonoma da dipingere e da scolpire”. Le parole di Holger Trülzsch descrivono perfettamente le intenzioni e il processo creativo messo in atto, la necessità di trovare nuovi punti di vista, l’essenza delle cose. Il sodalizio tra i due artisti, che risale al 1970 e che durerà per quasi tre decenni, porta alla realizzazione di numerose serie di body paintings – una sintesi di pittura, fotografia e performance – in cui, l’uso dell’affresco e delle tecniche anamorfiche, trasforma la natura effimera della pittura sul corpo, in immagini fotografiche illusorie, decadenti, piene di forza e pathos.
In linea con la tendenza sostenuta nelle precedenti esposizioni, di approfondimento dell’arte degli anni Sessanta e Settanta, la Galleria Spazzapan si appresta ad accogliere due artisti di rilievo internazionale con opere straordinariamente innovative, realizzate in un intenso periodo creativo che va dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta.»
L’inedita narrazione per immagini del fotografo Claudio Orlandi sui ghiacciai della catena Alpina e sulle strategie volte a preservarne la struttura e la presenza, invita a una riflessione globale sulla condizione del nostro pianeta in questo delicato momento storico. Ultimate Landscapes è un long-term project partito nel 2008 attraverso il quale il fotografo romano Claudio Orlandi, appassionato di montagna, riprende in differenti sessioni annuali l’evoluzione e la tecnica di “copertura” di questi ghiacciai, in sei campagne fotografiche i cui esiti sono esposti nella mostra dal titolo omonimo.
Le fotografie colpiscono per la loro grande forza e carica estetica. Rivelano solo in un secondo tempo ciò che in realtà rappresentano: grandi teli che ricoprono montagne, solo avvicinandosi e osservando con attenzione, si notano specchi d’acqua e altri dettagli che poco alla volta svelano la natura del soggetto nell’ampio paesaggio alpino. I cambiamenti climatici – divenuti sempre più rapidi e intensi – hanno suggerito interventi per ridurre la sempre crescente fusione dei ghiacciai, che costituiscono una risorsa importante sia in ambito paesaggistico naturalistico che nelle attività legate all’alta quota. Così, nei mesi tra giugno e settembre, ampie superfici di nevi e ghiacci sono coperte con teli bianchi (geotessili) che le proteggono dalla radiazione solare. Dopo le prime sperimentazioni, il pluriennale utilizzo dei geotessili ha confermato la loro utilità sia nella conservazione di neve e ghiaccio, sia nel rallentare la tendenza alla frammentazione dei ghiacciai.