I demoni di Prigov evocati in performance sonore

24.06.2011

[Il Manifesto]

IN VERSI E IN MOSTRA

Tradotto da Niero per Terra Ferma l’autore russo è esposto a Venezia L’intera parabola della vita di Dmitrij A. Prigov messa in scena dall’autore indossando polimorfe maschere autoriali

«Il mio nome è legione, poiché siamo molti». L’ammissione dell’uomo posseduto dai demoni di cui si narra in Marco 5,9 potrebbe forse illuminare da un’angolatura nuova la proliferazione delle maschere autoriali inscenata da Dmitrij Aleksandrovic Prigov durante l’intero arco della sua parabola creativa. Sin dagli albori degli anni ’70, dopo aver constatato la morte dell’autore inteso come entità assertiva e monolitica, l’artista moscovita perseguì una coerente dissoluzione del proprio Io creativo, disintegrato in una pluralità fantasmagorica di voci, ognuna caratterizzata da una precisa posizione stilistica e ideologica. A partire dalle prime liriche composte dal suo alter ego, il sedicente poeta ingenuo Dmitrij Aleksanyc, Prigov si dedicò a manovrare con invariabile virtuosismo le proprie ipostasi, serbando una fedeltà quasi sconcertante all’unica censura interiore imposta alla sua prassi: evitare di effondere la propria soggettività entro la cornice offerta dall’opera. Ne derivò una proliferazione quasi spontanea di voci posticce che si rivelava direttamente proporzionale alla produzione ipertrofica di testi poetici (forse 36.000) e all’accumulazione di una messe sterminata di disegni, collage, performance, video, installazioni. Troppo scettico per identificarsi completamente con uno degli autori-personaggi da lui creati, Prigov ha dato vita a una galassia testuale che, proprio per la sua incommensurabilità, comunica all’osservatore l’impressione fallace di essere tuttora in espansione, malgrado la scomparsa dell’artista, avvenuta nel 2007.
Una testimonianza di come dall’universo prigoviano giungano ancora oggi echi di insperata attualità (sempre più intelligibili anche per il pubblico italiano) è il rinnovarsi delle iniziative che documentano la sua prassi verbovisuale, tra le più radicali del ‘900 russo. Dopo Eccovi Mosca, rutilante pseudo-autobiografia edita l’anno scorso da Voland nella traduzione di Roberto Lanzi, occorrenze frammentarie ma essenziali dell’opera in versi vengono ora declinate con finezza da Alessandro Niero nella raccolta Trentatré testi, appena pubblicata dall’editore Terra Ferma. Testi (e non poesie, stante la diffidenza dell’autore nei confronti del soggettivismo lirico) che illustrano in modo esemplare i procedimenti stilistici da lui privilegiati, la capacità di pervenire – mediante la ripetizione ossessiva di parole-chiave – a un rigonfiamento innaturale dell’organismo poetico, poi di colpo «smontato» da una chiusa inaspettatamente icastica.
Così avviene nei testi classici degli anni ’70, dove l’adesione temporanea allo stile sgraziato e ampolloso di un anonimo grafomane consente a Prigov di esperire ad libitum le potenzialtà degenerative insite nel linguaggio, i turgori e le escrescenze verbali quasi mostruose che si producono quando la vacuità dell’idioma ufficiale (ormai interiorizzata dall’homo sovieticus) entra in rotta di collisione con le ambizioni di un poeta da strapazzo. Nell’immaginazione esacerbata di questo uomo superfluo, che vive asserragliato nel suo appartamento all’estrema periferia di Mosca, anche i gesti più banali come lavare i piatti, portare giù l’immondizia o fare la spesa si trasformano in sfide donchisciottesche all’entropia cosmica e all’iniquità del potere. Non c’è dunque da meravigliarsi se l’incontro notturno con uno scarafaggio in cucina assume le tonalità grottesche di un dialogo filosofico, o se il poliziotto di turno all’aeroporto di Vnukovo diventa simbolo dell’ordine costituito e, nella sua impavida ottusità, si rivela visibile da ogni punto del globo terrestre. Altrove invece l’alter ego di Prigov si lascia andare a maldestre considerazioni metafisiche, magari prendendo spunto da un verso del «collega» Pasternak, oppure rilegge le parole d’ordine dell’ideologia socialista alla luce della disadorna quotidianità sovietica.
Pur corredato da alcune immagini attinte al repertorio iconografico dell’autore, il raffinato libriccino di Terra Ferma non riflette – né d’altronde potrebbe – l’esuberanza sperimentale del Gesamtkunstwerk prigoviano, ma si limita a restituirne, come osserva lo stesso Niero nella postfazione, «l’ipostasi di poeta cartaceo», senza dare conto della dirompenza delle sue performance sonore o della complessità del corpus visivo da lui assemblato. Una lacuna che può essere agevolmente colmata visitando a Venezia la ampia retrospettiva attinta ai fondi dell’Hermitage curata da Dmitrij Ozerkov e da poco inaugurata come mostra collaterale alla Biennale d’Arte a Cà Foscari. Se la piccola ma affascinante esposizione allestita l’anno scorso da Sabine Hänsgen al museo di arte contemporanea Weserburg di Brema (e in procinto di spostarsi a Graz alla fine di novembre) era focalizzata innanzitutto sulla partecipazione di Prigov al fenomeno sovietico del samizdat, l’esposizione veneziana rispecchia compiutamente quello che, mutuando un termine coniato da Dick Higgins, potrebbe essere definito il carattere intermediale della sua opera. E lo fa privilegiando l’aspetto della performance sonora – genere da lui coltivato fin dagli anni ’70, quando il rito collettivo della lettura poetica costituiva per gli scrittori non ufficiali un valido escamotage per rimediare in parte alla propria condizione di «impubblicabili». A Cà Foscari l’inconfondibile timbro vocale dell’artista – contrapposto almeno idealmente alla molteplicità dei suoi porte-parole – assume una valenza centrale: non a caso, per accedere alla mostra, lo spettatore è costretto a un inconsueto corpo a corpo con l’autore e obbligato a scostare, in rapida successione, pesanti tendaggi neri su cui vengono proiettati i video delle sue ultime performance. Più distesa e onirica è l’atmosfera al piano nobile del palazzo, dove gli elementi ricorrenti delle serie grafiche di Prigov – dalle bizzarre creature antropomorfe dei Bestiari alle enigmatiche scritte bianche in campo nero che affiorano dalla superficie dei fogli – instaurano curiosi dialoghi a distanza con i dettagli architettonici dello spazio espositivo. Ma anche in queste sale è la voce del poeta a vantare una rilevanza assoluta, specie quando con l’ossessività dei suoi recitativi di ascendenza ora sciamanica, ora slavo-ecclesiastica crea una sorta di risonanza estatica al tratto fittissimo, quasi maniacale, delle composizioni astratte realizzate con la penna biro. Oppure quando accompagna in sottofondo la migrazione di elementi fissi (la coppa di vino, la corda, l’occhio sgranato) dai testi poetici alle installazioni, dai disegni su carta di giornale ai video. Se dunque innumerevoli sono i «demoni» di Prigov e pressoché inesauribili i volti che può offrire allo spettatore, avere enfatizzato le cangianti interrelazioni mediali tra le sue opere è senz’altro il pregio più evidente della retrospettiva veneziana.

Valentina Parisi