Con Hemingway: Venezia, gli scampi e il Valpolicella

28.04.2011

[Corriere del Veneto]

L’ultima volta del grande scrittore in laguna e quell’incontro con Montale

Ernest Hemingway arrivò a Venezia, per l’ultima volta, li 23 marzo 1954. Proveniva dall’Africa, portandosi dietro una grave commozione cerebrale e ustioni in varie parti del corpo, causate dal doppio incidente aereo che l’aveva colpito. Era stato inizialmente dato per morto, tanto che i giornali di tutto il mondo si erano premurati di pubblicare il suo necrologio. Per il Corriere della Sera, questo compito venne assegnato a Eugenio Montale.
Al suo arrivo al porto, Hemingway disse ai giornalisti che era giunto a Venezia «per curarsi con gli scampi e il Valpolicella»; quindi si rifugiò all’Hotel Gritti, «casa sua a Venezia». Due giorni dopo lo raggiunse Montale. Vantando qualche amicizia comune, il poeta ligure riuscì a oltrepassare lo sbarramento frapposto dal portiere e a farsi ricevere dallo scrittore americano.
Lo trovò dolente, stanco, sfiduciato e pieno di acciacchi. Leggermente balbuziente, Ernest parlava a voce bassa, usando la sua lingua franca, mentre mangiava qualche scondita foglia di radicchio rosso di Treviso. Il poeta riuscì a intessere con lo scrittore un dialogo che durò circa un’ora, restituendocelo, con toni frammisti di colore e ironia, in questo articolo che apparve sul Corriere della Sera il 26 marzo 1954, qui riportato nelle sue parti salienti.
Ieri, all’Hotel Gritti di Venezia, l’articolo di Montale è stato letto dall’attrice di teatro Michela Mocchiutti, nell’ambito degli eventi collegati alla Mostra "Il Veneto di Hemingway", aperta fino al 15 maggio nel Palazzo Loredan dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, in Campo Santo Stefano a Venezia.

Gianni Moriani

Il ricordo
L’articolo del 1954 sul Corriere della Sera
di EUGENIO MONTALE

Venne ad aprirmi la signora Hemingway(…). Hemingway era rovesciato sul letto: su un pigiama color cannella portava un pullover verdastro: intorno ai grossi occhiali a stanghetta era tutto un arruffio di ciglia, di baffi, di barba non fatta da almeno tre giorni. Sulle guance quell’inconfondibile rossore che forse gli viene da una malattia della pelle ma che io mi ostino a creder dovuto a un’invincibile timidezza(…). La stanza era in disordine, bottiglie di Chianti e di whisky erano sparse a terra e lo scrittore stava mangiando un piatto di lattuga e di radicchio rosso di Treviso. Mi prese il viso, lo scrutò da vicino, poi parve rassicurato o almeno finse benevolmente di riconoscermi: e una multilingue conversazione, una mezcla d’italiano, d’inglese, di francese e di spagnolo prese l’avvio. Mi fece subito vedere le sue ferite, le sue scottature di primo e secondo grado. Ne parla come un alpinista riferisce delle sue più ardue scalate. Poi enumerò gli organi (i reni, il fegato e qualcos’altro) ch’egli giudica compromessi. Organi però, intendiamoci, pienamente sostituibili, a ricambio. Egli dà l’impressione di essere un perfetto orologio di marca che può sopportare molte riparazioni. Guardandolo, ascoltandolo, continuavo a rimproverarmi di aver pianto troppo poco e in fretta alla notizia della sua probabile morte.
Glielo dissi e mi parve molto divertito. Non direi che abbia ancora letto molti dei necrologi d’allora. Ma è preoccupato e ha voluto "toccar legno" (la spalliera del letto) quando gli è venuto in mente che un giorno o l’altro quegli scritti potranno ancora essere utilizzati. Rivoltandosi sul letto ebbe movimenti da giovane elefante. Ogni tanto emetteva un fischio d’approvazione o un prolungato squittio di biasimo. Lodi e invettive sono di solito dette in francese (il n’y a que Joyce et tout le reste est m…, Scott Fitzgerald, un ubbriacone, un drunkard, mais un chic type: Cesare Pavese, che ha conosciuto, a guy très très bien). Di altri scrittori italiani ha ricordato Vittorini, a lui molto caro, e Giuseppe Berto. Forse non ne conosce molti altri. Tuttavia, quando mi accennò che voleva tornare a Udine, a Cividale, a Codroipo e in tutti i luoghi che abbiamo trovato nel suo romanzo veneziano "Across the river…, non mancai di accennargli che Udine l’avevo scoperta attraverso Svevo ed egli fece una piroetta d’ammirazione. Svevo, amico del suo Joyce, era bueno, muy bueno, era un nome che gli diceva qualcosa…
Non andrà a Roma, che non lo interessa affatto. Milano… non è più quella di una volta. Non fa più pensare a Stendhal, lo scrittore di cui egli si dice discepolo. Ha letto D’Annunzio? Fa un salto sul letto e cerca di imitarlo gridando: "Vivere non è basta!". Poi ricorda, mi pare con lode, il Notturno. Il suo prossimo libro? Una tetralogia, di cui il vecchio e il mare già pubblicato con clamoroso successo, sarà la cola, anzi la coda. Ma durante i suoi viaggi lo zio Ernesto non scrive: lavora solo a Cuba, nella sua fattoria di San Francisco de Paula. (…). Dopo un’ora di fitti discorsi ogni foglietta di radicchio era scomparsa dal piatto: ed io ascoltando mi chiedevo che cosa avrebbe pensato di un uomo simile quel Croce che, ottantenne, aveva intravisto nella Vitalità il vero segreto dell’universo. Io penso che quei due uomini che nulla avevano in comune avrebbero finito per intendersi. Ernesto Hemingway è infatti un grande umanista allo stato latente, direi quasi allo stato brado. Il suo incontro con gli esuli parigini, con Joyce e Pound, fu probabilmente, trent’anni fa, la sua salvezza. Fu certo la sua vaccinazione. Da quel mondo che oggi non esiste più (…), egli ha portato via un viatico incorruttibile, che è poi l’ultima lezione del grande naturalismo francese: l’amore della verità, temperato da uno straordinario senso dello stile. E forse è per questo che quando Hemingway, dopo aver culbuté sul letto per deporre a terra un bicchiere di Chianti, mi abbracciò dicendo ‘addio, mon vieux’ come se fossimo davvero vecchi amici e sentii sul volto gli spunzoni di quel giovane vecchio di appena cinquantacinque anni, io uscii sul campiello vicino commosso come son stato raramente in vita mia. Avevo scoperto che si può essere ‘ubriachi di se stessi’ senza essere né pazzi né vanagloriosi, né tantomeno volgari drunkards: ma restando uomini e uomini semplici. Ed ora facciamo tutti gli scongiuri e speriamo che Hemingway non faccia molti viaggi in aereo, ma se un giorno io dovessi smaltire il necrologio che gli ho dedicato due mesi fa, sono certo che questa volta non scriverei proprio a ciglio asciutto.