Campi e giardini: com’è verde Venezia

18.11.2011

[Il Gazzettino]

Dagli 87 monasteri benedettini dell’VIII secolo, il viaggio tra memoria e vegetazione di Tudy Sammartini e Cesare Gerolimetto

DI TUDY SAMMARTINI

I monaci giunti da San Benedetto Polirone hanno bonificato l’area melmosa inserendovi colture come vite, riso, gelso. I confratelli approdano in queste acque nell’VIII secolo e vi creano 87 monasteri benedettini. Nel 727 un abate di San Michele di Brondolo è eletto patriarca di Grado: nello stesso momento sorge il ritiro di San Servolo. Un secolo dopo viene fondato sant’Ilario allo sbocco del Brenta e nelle isole rivolatine si insediano due conventi di suore, San Zaccaria e San Lorenzo. (…) In un documento del 1101 è citato il monastero di San Gregorio, eretto accanto all’omonima chiesta dedicata agli inizi del IX secolo al papa Gregorio Magno (540-604). Bastano queste poche tracce a farci capire l’importanza dei benedettini, tra i primi a impadronirsi della laguna e a organizzare le coltivazioni(…). Come scrive Henry James in "Italian Hours", senza le cose che crescono, Venezia sarebbe solo un fatto di acqua e pietre. Per cercare di capire l’evoluzione nel tempo del verde a Venezia basandomi sull’unica documentazione veritiera, l’incredibile veduta a volo d’uccello di Jacopo de’ Barbari, ho ripercorso ancora una volta i luoghi fioriti della città avvalendomi di nuove ricerche. Nelle seicento immagini dei capitelli di Palazzo Ducale, di cui uno è dedicata ai dodici mesi dell’anno si può intravvedere nella stagionalità il verde della città. All’inizio del 1300, nel luogo deputato al governo c’è già illustrata la vita di tutti i giorni, la natura in cui siamo immersi. Il tutto ammantato di astrologia. L’"Hypnerotomachia Poliphili", opera di Francesco Colonna, monaco domenicano a San Giovanni e Paolo e pubblicata a Venezia nel 1499: è un libro allegorico scritto in un linguaggio criptico che ha influenzato l’arte dei giardini dal Rinascimento in poi. Dopo la pianta del de’ Barbari, nel 1729, la pianta di Lodovico Ughi rappresenta esaustivamente il tessuto vegetale di Venezia esaltando fin nei minimi particolari il suo verde, mentre in quella di Bernardo e Gaetano Combatti del 1855 alcuni palazzi diventano giardini, come quello di Calle Racchetta a Cannaregio. (…) Con la conquista napoleonica e la dominazione austriaca le tasse diventano faraoniche, qualche palazzo prende fuoco e i giardini vengono abbandonati: troppo lusso per il proprietario. Vi si costruiscono fabbricati ad uso industriale come alla Giudecca e sulle Fondamenta Nuove. Si salvano gli orti dei conventi, i giardini in mano agli stranieri come il primo moderno in città, l’Eden. La proprietaria era la sorella maggiore della botanica Gertrude Jekyll: esiste una cartolina in cui la signora invita l’amica Madame Boulteau ad ammirare la nuova piantagione di rose perenni. Con l’arrivo di Napoleone cambiano molte cose: la nuova concezione di paesaggio necessita di spazi talmente vasti da essere impensabili; si immaginano incredibili impianti scenografici per ospitare piante giunte soprattutto da altri paesi. Per ottenerli si distruggono chiese, edifici pubblici e privati. Per realizzare quanto suggerito dall’architetto Selva è stato demolito un denso nucleo di architetture religiose e coperto un tratto di Rio di Castello. Tra la vegetazione sbucano statue settecentesche; un arco del Cinquecento, quanto resta della chiesa di Sant’Antonio Abate, testimonia la furia distruttrice di Napoleone che nel 1807 decretava: «La buona città di Venezia deve essere provveduta di un pubblico luogo di passeggio».

(a.f.) Che la "piazza" di Venezia sia una sola e che il resto degli spazi allargati si chiamino "campi" dipende solo da un fatto storico. Che i campi erano proprio tali (come i campielli). Terreni erbosi dove circolavano galline e per un certo tempo anche i maiali. Venezia era così ed è stata così per secoli: terra, fango, alberi piantagioni, coltivazioni e verde. Poi è cambiato tutto e tra i mille cambi se ne è andata anche la memoria. Stavolta a riportare alla luce le cose quasi scomparse ci hanno pensato Tudy Sammartini e il fotografo Cesare Gerolimetto nel loro volume "Verde Venezia. I giardini della città d’acqua" (Terraferma editore, 39€, grafiche Antiga stampatore). L’introduzione di Patrizio Giulini spiega meglio di mille parole il lavoro: «Senza Tudy sarei un non vedente e penserei ancora a una Venezia spoglia di piante».