Venetia Fragrans, come leggere la nostra cultura nel piatto

17.04.2014

È storia, è società, è il piacere di scoprire la cultura di un popolo “studiando il piatto”: i sapori, gli abbinamenti, le scelte cromatiche, il grado di cottura, la presentazione. È una curiosità molto europea quella di abbinare il paesaggio alla gastronomia, il territorio al cibo, in particolare di quelle popolazioni mediterranee che hanno trasformato lo scambio in ricchezza. Racconta di questi contatti ed osmosi il nuovo libro di Ulderico Bernardi, un’autorità in questo campo, intitolato “Venetia Fragrans”. Dotto, documentato, in un mosaico di autori che hanno scritto nei secoli la storia della gastronomia, il volume accompagna attraverso quella quotidianità che spesso sfugge alla nostra attenzione ma che contribuisce a descrivere i nostri contorni identitari. Ci sono sapori che riconosciamo senza alcuno sforzo perché fanno parte del nostro Dna senza chiedere il più delle volte da dove arrivino la passione, per alcuni piatti e la capacità di coniugare passato e presente in una rivisitazione al passo con i tempi. Certo, perché i ritmi di vita ci impongono di adeguare quantità e qualità di cibo alle reali necessità dell’uomo moderno; eppure, la storia continua a far scorrere la sua acqua dentro le nostre abitudini. Il libro, che racconta di ingredienti, loro provenienza, usi, costumi, riti, trae spunto dalla ricchezza della Serenissima che “s’alza ancora nel cielo dei miti culinari con un appetitoso vaporare di fragranze, a incontrare gli effluvi genuini che esalano dai focolari di città e villaggi, nell’ampio territorio dell’Italia del Nord volta ad Est”. Ci siamo anche noi, Oltremarini, come eravamo considerati a Venezia, che Ulderico Bernardi, già docente della Ca’ Foscari, considera parte di un’unica identità. Lo lega a questa nostra terra la profonda conoscenza delle sue vicissitudini storiche. Tra i tanti, cita spesso, un suo intimo amico, Fulvio Tomizza, “troppo presto scomparso, lasciando un vuoto difficile da colmare”, col quale affronta alcune riflessioni sul significato dell’elemento culturale che “evidenzia la persistenza del radicamento ed il bisogno di riaffermare la propria appartenenza”. Lo fa analizzando il delicato mondo dell’emigrazione, nei suoi frequenti incontri con i corregionali all’estero che gli hanno permesso di tracciare una mappa delle abitudini, avverte chiaramente la persistenza del riferimento alla propria cucina per cui “nella letteratura scientifica si parla a questo proposito di lealtà alimentare”. Così Fulvio Tomizza annotava: “Nell’ostinato abbarbicamento ai propri scogli e alle proprie zolle, contro tutto e contro tutti, per istriani, quarnerini e dalmati la cucina ha giocato un ruolo primario. Mezzo millennio di presenza veneta ha conferito alla penisoletta di confine un’impronta molto resistente alle culture successive”. Stabilito questo imponente legame, la lettura del libro diventa una lezione di storia con tutto il sapore che il ricordo del cibo evoca, prodotto dopo prodotto, anzi prodotti tipici che, per esempio, il friulano Walter Filiputti, “inesausto indagatore delle specificità della sua terra”, nel fornire una corposa mappa, li ha definiti “eroi silenziosi”, capisaldi di una persistenza che impedisce alla standardizzazione di prevalere”. Ad iniziare dai “radici” pronunciato al plurale e comune in tutte le Venezie con specifiche diverse: de campo, trevisàn, verdòn, ciosòto, veronese, castelàn e de Gorissia, che tutti ben conosciamo e che la tradizione vuole: “insalata, ben salata, poco aceto e ben oliata!”. E poi il baccalà, il pesce delle feste importanti, la polenta; la grappa, le patate, il pesce del nostro mare, il vino, le carni fresche e lavorate, tanto per citarne alcuni, offerti con grazia “all’intera Europa aristocratica – ricorda Bernardi – che osservava con invidia le dovizie veneziane: l’arte dell’imbandigione, la posateria dorata, le mirabili coppe e gli eleganti vasi e bicchieri muranesi, le nappe, il tovagliato impreziosito di ricami e merletti di Burano, i vasi di rame colmi di frutta e i bacili incisi che custodivano le bevande in ghiaccio”. Da Venezia il gusto per il bello, il piacere del buono irradiavano in tutto il continente. Le spezie preziose prendevano la via della montagna: pepe di più sorte, cannella e cardamomo, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero e pani di zucchero. Ma con questi anche stoffe pregiate veneziane, unguenti e medicinali. Per non dire del sale e dell’olio d’oliva. Il tutto per preparare intingoli sopraffini ed insaccati tipici che mantengono ancor oggi quel sapore trasformato in tradizione e radicato nelle culture locali. Nel libro la storia è sempre presente, così l’autore avverte che “il monopolio veneziano comincia a cedere nei decenni successivi al 1497, quando le caravelle di Vasco de Gama dopo aver superato il capo di Buona Speranza toccano la costa del Malabar, trasferendo al Portogallo il maggior ruolo di questo commercio (e in quello degli schiavi, praticato a lungo anche dai veneziani) grazie alla nuova rotta. Il porto di Lisbona diventa fiorentissimo per la vendita degli schiavi, e l’abbondanza delle perle, delle sete e delle droghe provenienti dall’India”. E tutto cambia.

Rosanna Turcinovich Giuricin

La Voce del Popolo (8 aprile 2014)