Dante Moro. L’arte, l’umiltà, la memoria

14.01.2012

[L’Amico del Popolo ]

Non sono poche le pubblicazioni che si occupano dello scultore falcadino Dante Moro (1933-2009) e delle sue opere. Dante Moro nel ricordo di un amico», editore Terra Ferma di Crocetta del Montello, è solo l’ultima a materializzarsi per merito di due amici dell’artista, Franco Chiereghin autore dei testi e Carlo Maccà delle belle fotografie. Il volume di 194 pagine in versione elegante, cm 24.5 x 28.5, euro 29, è contrariamente a quanto si possa pensare una pubblicazione atipica. Un lungo racconto, quasi un romanzo, intorno all’uomo, all’artista, alle sue opere. Intorno a un filo invisibile ma continuo, si materializza l’umanità di Dante, il suo essere, quella presenza che rimaneva comunque misteriosa a chi lo avvicinava.

Il racconto prende vita agli inizi degli anni ’50 e costituisce una piacevole sorpresa perché inaspettatamente ci fa sentire vicini a un uomo gentile, cortese, essenziale. Per la prima volta chi ha conosciuto di persona Dante Moro e legge questo volume, va al di là dei suoi occhi dallo sguardo conturbante, inquieto, che non raramente creavano disagio, ma nascondevano tanta ricchezza. Per la prima volta lettore e spettatore vanno al di là della timidezza, della riconosciuta riservatezza del montanaro artista, sollevando l’apparente dura «scorza» che lo avvolgeva per osservare l’umano che c’era in lui. Un libro certamente utile, sicuramente affascinante. Dante e il lavoro erano tutt’uno. Il lavoro per lui era vita, divertimento, emozione. Ma vi era spazio anche per l’amicizia, per il sentimento.

Un Dante Moro in libertà, al di là dei suoi silenzi, che ama il suo territorio, le sue montagne, e ne coglie aspetti singolari e diversi. Chi racconta – Franco Chiereghin, colui che ha voluto «sacrificare», una parte dei propri ricordi condividendoli con altri – non preme la penna sulla carta, ma questa lascia comunque tracce profonde che vanno ben oltre le nude parole. In questa occasione la figura dell’uomo – artista si materializza come non mai, merito di uno scritto efficace e avvincente. A suo tempo invano avresti cercato di carpire dallo scultore qualche tratto significativo della sua personalità e della sua interiorità. Intuivi quanto quest’ultima fosse profonda, ma non riuscivi a coglierla nella sua reale consistenza. Quell’area, quei momenti, erano rigorosamente riservati alla famiglia, tutt’al più a qualche amico. Le sue opere lasciavano certamente trasparire molto di più. E chi scrive e firma il volume, non disdegna di tanto in tanto di entrare anche in qualche analisi critica delle opere, soprattutto per mettere in luce, sottolineare l’anima e la personalità dell’amico. Dante Moro dopo aver lavorato tutta la vita il legno del cirmolo morbido, e profumato, negli ultimi anni, da malato, aveva voluto cimentarsi con legni più duri quali il frassino, come se avesse la consapevolezza che il suo percorso umano e artistico fosse arrivato alla fine. L’esteriorizzazione di una lotta intellettuale, ma forse ancor più morale contro la limitazione sopravvenuta. In quei momenti di sofferenza Dante aveva voluto o dovuto rinunciare ad ascoltare persino certa buona musica che lo aveva accompagnato non di rado nel suo lavoro, pur perfetta nella sua forma e nelle sue espressioni. Comunque, protagonista del volume resta l’uomo, non la sua opera. Semmai l’uomo con la sua opera, la sua arte, mai separate dalla sua umanità, che finisce col confluire nei suoi lavori. Certamente la moglie e pochi amici, come si è detto, sono andati al di là dei suoi talvolta imbarazzanti silenzi. A Bruno Vespa che lo avrebbe voluto intervistare presentandosi quale giornalista del TG1, Dante Moro aveva replicato con una esclamazione di stupore cui aveva fatto seguito il silenzio imbarazzato dell’altro. Gli amici che sono entrati nel profondo del suo mistero, hanno potuto accompagnarlo con le loro conversazioni, con le passeggiate, le escursioni in montagna che lui amava.

Alla fine del racconto di Franco Chiereghin, il nostro sguardo s’imbatte nell’immagine della sua ultima opera. La sua vita terrena sta per finire. Ma l’accanimento per il lavoro, il suo bisogno di comunicare attraverso l’arte, proseguono e si esauriscono in una scultura lignea alta tre metri, complessa, destinata a una Casa di Riposo di Padova, con cui lo scultore nel suo ultimo sforzo, sintetizza il percorso di una vita artistica, subii mando in un momento unitario i diversi stili che lo avevano contraddistinto nel tempo. Una figura di anziano accovacciato in basso, forse un autoritratto, funge da seme per una nuova vita che si slancia con vigore verso l’alto. Un forte messaggio di speranza, di trasformazione e comunque di continuazione che sprigiona da un uomo ormai afflitto da un male incurabile. La sua religiosità espressa in tanti luoghi sacri, non è andata persa, ma trova pathos e conferma in un’opera realizzata più per se stesso piuttosto che per chi l’aveva commissionata.

Giuliano Dal Mas