Le prime fotografie dell’Oriente

08.01.2012

[settimanale "La Lettura", allegato del "Corriere della Sera"]

In provincia di Padova i lavori di Felice Beato e della sua cerchia

I samurai, le geishe, il paesaggio del XIX secolo raccontati attraverso le immagini Dalle suggestioni di Hokusai e Utamaro al problema della conservazione

(di Arturo Carlo Quintavalle)

Certo, ci vuole un qualche impegno per arrivare a Piazzola sul Brenta (in provincia di Padova) ma la Villa Contarini, con le sue peschiere, i suoi canali larghi come strade e quel «semicerchio incompiuto» come un abbraccio, memore forse di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova, vale da sola il viaggio. Ed è proprio qui che si tiene questa mostra dedicata ai fotografi occidentali e giapponesi del XIX secolo. Titolo: "East Zone. Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari. Fotografi veneti attraverso l’Oriente dell’Ottocento". E osservazione preliminare: nel titolo vengono proposti i nomi di Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari. Ma di Antonio si espongono 5 foto; di Felice, 13 (più 7 firmate «Beato e Robertson» dunque in collaborazione con l’inglese James Robertson); di Adolfo, 14. In tutto, se non ho contato male, 39 foto sulle 85 in mostra. Certo, anche gli altri nomi sono stimolanti (ricordo qui Felix Bonfils e Raimund von Stillfried-Ratenicz, David Welsh e gli Zangaki, per non parlare dei giapponesi come Ueno Hikoma e Yokoyama Matsusaburo, Kusakabe Kimbei e Ogawa Kazumasa). Ma allora forse non sarebbe stato meglio scegliere un titolo diverso, magari collegato alla realtà della rassegna, anche se i Beato hanno certamente un appeal preciso? La critica ha distinto le due esperienze di Antonio e di Felice, il primo prevalentemente in Egitto dal 1860 alla fine del secolo, l’altro in Estremo Oriente, dall’India alla Cina al Giappone; quanto a Farsari, altra vita avventurosa, dopo gli Stati Uniti, dove partecipa alla Guerra di Indipendenza, si stabilisce dal 1873 in Giappone e qui resta fino al 1890 per poi tornare a Vicenza. Dunque quali sono i problemi per chi affronta una storia complessa e densa di scambi come questa dei grandi fotografi dell’Ottocento? Prima di tutto gli studi hanno una vita diversa da quella del singolo fotografo: spesso i materiali dell’uno passano ad altri, e non soltanto le attrezzature, ma soprattutto le lastre originali, eredità preziosa che viene inglobata dal nuovo fotografo e quindi riproposta, rendendo così difficili le attribuzioni delle singole stampe. Come a dire che uno studio fotografico in Medio e in Estremo Oriente è spesso una bottega dove, nel tempo, operano autori diversi dei quali ancora oggi è difficile distinguere le «mani». Altro problema non affrontato nella rassegna di Villa Contarini è poi quello degli album. Perché molte delle immagini in mostra possono avere fatto parte di precise raccolte, in volumi rilegati con decine di fotografie organizzate secondo determinate serie narrative: per esempio i costumi tipici giapponesi, i mestieri (geishe e samurai compresi) o la natura. E in qualche modo confermano questa consuetudine le notizie di vendite e le offerte pubblicitarie di album conservati. E dunque sarebbe stato forse più ragionevole indicare quali immagini possono aver fatto parte di queste serie e perché. Un tema importante è poi quello della conservazione: una parte delle albumine in mostra sono in buone condizioni, altre (invece) molto meno, e questo certo a causa della troppa esposizione alla luce. Lo stato delle opere avrebbe così richiesto, sia ai proprietari che agli espositori, una precisa (e maggiore) attenzione a questo problema. Resta aperto inoltre un discorso storico sulla diffusione dei modelli di immagine in Giappone nella seconda metà del XIX secolo a partire dagli atelier dei fotografi europei e poi dei giapponesi a Yokohama o a Tokio. Sarebbe anche servito un intervento preciso sul rapporto fra la grafica giapponese (da Utamaro a Hokusai) e le fotografie della seconda metà del XIX secolo perché sembra evidente, e su questo punto in catalogo vi è solo un cenno di Magda di Siena, che le scelte dei fotografi, stranieri e locali, dipendono molte volte dalla tradizione sette e ottocentesca dei grandi xilografi giapponesi. Un poco come in Occidente accade per il taglio delle vedute di paesaggio che, dalla pittura settecentesca, passano alla fotografia e poi, dalla foto di fine XIX secolo, ancora alla pittura. E da approfondire resta anche il tema delle foto colorate a mano che, in Giappone, trasformano, grazie alle sottili velature, le tonalità brune dell’albumina. Il colore viene usato un poco da tutti i fotografi che si servono di pittori di professione, o calligrafi, sui quali purtroppo mancano però indagini adeguate. Infine una mostra con tante e così differenti opere avrebbe dovuto avere schede «singole» per ogni fotografia, ma questa, mi rendo conto, sarebbe stata impresa molto difficile. Dunque quella di Villa Contarini appare certo una mostra ricca di molti stimoli ma anche con molti problemi. Gli stessi che (d’altra parte) sembrano caratterizzare molte delle rassegne di fotografia dedicate al secolo XIX. Dove il piacere di esporre opere poco note o addirittura sconosciute non corrisponde a un preciso impegno filologico.

La mostra
«East Zone. Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari. Fotografi veneti attraverso l’Oriente dell’Ottocento».Villa Contarini, Piazzola sul Brenta (Padova), fino al primo aprile. La mostra e il catalogo (Antiga Edizioni, pp. 160, € 25) sono a cura di Magda di Siena (info www.villacontarini.eu; tel. 049 8778272).